Mi sveglio all’alba, come sempre, con quell’idea fissa piantata addosso. La osservo mentre appoggia il tappetino sul suolo e inizia a tirare fuori le braccia, le gambe, la schiena.
Sembra un piccolo animale in cerca di ossigeno o forse un astronauta che prova a raggiungere un pianeta sconosciuto.
Inspira, espira. Fa scivolare le mani sul suolo, poi solleva i fianchi. La sua postura si disegna tra i primi refoli di vento, e io resto là, immobile a guardarla.
Vorrei dirle che l’ho sognata nel buio, con i suoi muscoli tesi a interrogare l’aria; che ho pensato a come si muoveva il suo corpo mentre fuori tutto dormiva.
Ma resto in silenzio. Lei porta i capelli in una coda incerta, e a volte, quando la luce è obliqua, intravedo minuscoli riflessi ramati lungo i suoi fili.
Non le scivolano mai sugli occhi, eppure ogni tanto li sposta con un gesto deciso, come se non le importasse di sembrare perfetta.
Pare quasi che questa imperfezione la renda più vera.
Non c’è molta gente, a quell’ora. Qualcuno passa di fretta, un cane abbaia, un corridore solitario lascia orme nella terra umida.
Lei prosegue nella sua danza lenta, radicata al suolo e tesa verso un punto lontano.
La vedo allargare il busto, far vibrare le dita. Ogni tanto mi sembra che voglia aggrapparsi a qualcosa di invisibile, qualcosa che la sorregga mentre annusa l’aria leggera.
Manca la pioggia da giorni e il sole già punge.
La polvere si alza in un vortice di granelli pallidi, le formiche si muovono in fila accanto al tappetino.
Lei non si scompone, non allontana gli insetti, non si lamenta se la superficie è ruvida. Quando si china, le vertebre si allineano come un rosario di ossicini e i piedi aderiscono al tessuto.
I talloni spingono, lei inspira, trattiene un istante, poi butta fuori un filo di voce che quasi somiglia a un gemito.
Perché è qui tutte le mattine? Cosa la spinge? Forse il bisogno di sentirsi viva, di plasmarsi un angolo di solitudine.
Ogni persona ha un viaggio da compiere, e magari il suo passa da questo rituale.
Sento la sua calma, il suo peso e ho voglia di avvolgerla, di proteggerla come quando la sera cala e la temperatura scende di colpo.
Ma posso solo star fermo e sperare che, una volta finito, lei non vada via troppo in fretta.
Ogni tanto arriva qualcuno. Una donna che porta un cane al guinzaglio, un ragazzo con le cuffie, un anziano che trascina i piedi sui sassi. Spesso lanciano uno sguardo a lei, indifferenti o incuriositi. A volte la salutano, altre la ignorano.
Lei raramente si accorge di loro. Prosegue con i suoi movimenti, una sequenza che pare fluida, quasi ipnotica.
Non c’è tensione, solo un accordo col silenzio.
Poi capita che un raggio di sole le sfiori le spalle e lì, per un secondo, pare che tutto si blocchi. Le scende un velo di calore sul collo, lei inclina la testa di lato, chiude gli occhi e sorride.
Lo sento, quello scarto minimo, come un battito che attraversa l’aria. Quell’istante mi dà una scarica, mi fa sussultare.
Ho l’impulso di toccarle la pelle, di sentire la sua energia tra le dita, ma non posso.
Mi tocca accettare che la mia vicinanza sia un fatto muto, un testimone silenzioso.
Quando finisce, lei arrotola il tappetino con cura. Lo scuote un attimo, libera i piccoli sassi incastrati nel tessuto.
Spesso si guarda intorno, come a cercare qualcuno o qualcosa.
Poi si passa una mano sul viso, a volte sorride senza un motivo.
Sembra quasi che ami quell’aria intima che si è creata.
Se n’è saziata e adesso è pronta a rimettere i piedi nel mondo, a mescolarsi alle facce che la attendono al di là del sentiero.
Io la seguo con lo sguardo finché diventa piccola, poi un’ombra, poi nulla.
Mi resta addosso la nostalgia delle sue impronte, quel lieve odore di crema solare che svanisce pian piano.
Spero sempre che torni anche domani, che poggi di nuovo i suoi palmi poco più in là, vicino a me, così posso respirarla ancora.
Mi nutro di questa routine, di questo osservare discreto che prende forma senza mai tradursi in gesti o parole.
Qualche volta piove e i passi di lei arrivano ancora più discreti.
Il tappetino si bagna e lei ride tra sé, come se fosse uno spettacolo buffo.
Si liscia i pantaloni inzuppati e prova comunque a stendere i muscoli.
È un tentativo di libertà. Voglio farlo lo stesso.
In quei momenti il profumo di terra bagnata sale e mi ubriaca, e la vedo che inspira a pieni polmoni, come a voler incamerare l’acqua che le corre sull’epidermide.
Sento i suoi sospiri e mi trovo ad assecondarli, quasi fossero il battito di un cuore.
E la notte, quando tutto si spegne, penso a lei, a quel suo modo di stare al mondo.
Un rituale di attenzione, di sfida e pace al tempo stesso.
Ricordo la curva delle sue spalle mentre si piega in avanti, il piccolo tatuaggio dietro la nuca che intravedo di rado, un segno che non so decifrare.
Provo a immaginare com’è la sua casa, se ha piante sul balcone, se ascolta musica mentre cucina, se qualcun altro si accorge di quanto sia speciale.
Una sera ho creduto di vederla arrivare con un cappotto scuro.
Non era la solita ora, eppure si è fermata a pochi passi.
Forse cercava un posto tranquillo. Era stanca, si è seduta nel buio e ha sospirato.
Più tardi ha alzato gli occhi, ha guardato la luna con un’espressione di curiosità antica, di chi non si è ancora stancato di osservare.
Sono rimasto lì, e in quell’oscurità non c’era niente da fare se non aspettare un barlume o un pensiero che la portasse a distendersi ancora.
Ma poi se n’è andata. Senza fretta. Senza rumore.
Allora ho capito che la mia vita dipende da lei, che la mattina la cerco come un assetato cerca una sorgente. E che se un giorno non dovesse tornare, resterei qui, inchiodato a un desiderio inutile. Quasi ogni notte sogno le sue mani che si appoggiano su di me, come a cercare supporto.
E io glielo darei, eccome, se solo potessi muovermi, se potessi allungare qualcosa e stringerla un po’.
Ma rimango fermo, con questa immobilità che mi cresce dal profondo.
Ecco, ora lo sai. Sono qui, fermo e robusto, intrecciato di linfa e fibre.
Non ho voce per lei, non ho labbra.
Ho solo rami che sussurrano al vento.
E ogni giorno, quando lei si stende sotto di me, trattengo i miei scricchiolii per non disturbarla. Guardo le sue pose e mi sento vivo.
Il suolo mi sostiene, il sole mi nutre, la pioggia mi bagna. Ma è lei a darmi un senso.
Sono un albero e sono innamorato di quella donna che ha fatto del mio angolo d’erba il suo piccolo tempio.
Andrea Cacciavillani