Non lo so come mi chiamo.
Sono fatto di lattice, lucido come un sogno scadente e trasparente come una bugia.
In questo momento me ne sto raggomitolato in un minuscolo involucro di plastica, soffocato da scritte che promettono sicurezza e protezione in caratteri spavaldi.
Operai annoiati mi hanno infilato in scatole anonime, numeri di lotto e scadenze timbrate con inchiostro triste.
Mi hanno spedito su scaffali polverosi, dove ragazzini timidi mi sbirciano con paura e uomini convinti mi arraffano al volo.
Ma io ho un’anima. E la mia anima osserva. Fa i conti con l’attesa.
Gente con ansia e bramosia mi tiene in tasca, tra monetine e portachiavi mezzi rotti.
«Passami il pacchetto» dice una voce.
«Non lo trovo. Sei sicuro di averlo preso?» risponde un’altra.
«Certo che l’ho preso. È qui da qualche parte.»
Un fruscio nervoso. Manca poco. Io fremo.
Non ho scelta, è la mia vocazione.
Le dita dell’uomo mi trovano. Strappano l’involucro con un colpo secco: crack.
L’aria mi colpisce come una doccia gelida.
Mi stirano, mi allungano, mi srotolano come se fossi un tappeto da sagra paesana.
Mi manca il respiro. Sono elastico, sì, ma ho i miei limiti.
Loro pensano solo al corpo che deve godere, all’ansia di chi vuole tutto e subito.
«Fai piano, dannazione» bisbiglia lei.
«Sto cercando di non romperlo.»
«Sei sempre impacciato, maledizione. Ma fallo in fretta.»
Mi calano sul protagonista.
Un re in bilico, forse un po’ ridicolo, gonfio d’orgoglio, di ambizione.
Sento i suoi battiti veloci, l’eco della sua smania.
Io mi aggrappo come un paracadute inutile. Tutto intorno è al buio.
Il letto cigola. Il tizio ansima. Lei sussurra parole mozze, a volte spinge, a volte ride.
Stanno provando a recitare una scena passionale ma la scenografia è povera, la regia sbrigativa.
Io resto in ascolto. So che il copione finirà presto.
Bukowski direbbe che è una farsa, una corsa cieca verso un orgasmo confuso.
Forse non direbbe nemmeno “orgasmo” forse direbbe “strillo” o qualche termine da osteria.
Pochi minuti. Un climax frettoloso.
L’uomo si irrigidisce, emette un verso strozzato, come se stesse ingoiando il suo stesso orgoglio.
Lei sbuffa, più scocciata che appagata. Fine dello spettacolo.
«Fatto? Cristo, hai finito già?»
«Basta, non ricominciare. Sono stanco, ok?»
«Stanco di che? Ho fatto tutto io!»
«Non alzare la voce, qualcuno potrebbe sentire.»
«Perchè? Credi interessi a qualcuno la tua performance da quattro soldi?»
Poi silenzio. Li sento scostare. Mi sfilano dal re ormai flaccido.
Lo fanno con la cura di un medico balordo, attento solo a non sporcarsi le mani.
Non mi hanno mai regalato una carezza, un grazie.
Figurati. Il mio essere trasparente li fa sentire invincibili.
Quando il tizio mi sfila, sento un suo sorrisetto amaro.
Ha il cervello altrove. Già pensa alla prossima birra, ai soldi che non ha, alla mattina dopo.
Apre il cestino sporco e mi lancia come un rifiuto qualsiasi.
«Ecco, bella storia. Finito. Buonanotte.»
«Già te ne vai?»
«Sai, domani lavoro.»
«Fai ciò che vuoi» sibila lei. E sbatte la porta.
Atterro tra cartacce, involucri di snack, un accendino rotto.
Un declassamento fulmineo: da guardiano della pelle a spazzatura dimenticata.
Il cestino puzza di ammoniaca. C’è una bottiglia di birra riversa che mi sfiora.
«Brutta caduta, eh?» mi sussurra il mozzicone di sigaretta.
«Già»
Mi torco, mi affloscio.
Loro non sanno che continuerò a esistere, indistruttibile.
Mentre i corpi dei due amanti invecchiano e marciscono, io non vado da nessuna parte.
Se fossi un poeta, direi: “io sopravvivo più tossico di qualsiasi confessione, più duraturo di ogni promessa”.
Nel buio del cestino, rivivo quei momenti.
Mi scorrono davanti, come fotogrammi di un film sgangherato.
La nascita su un rullo industriale, la confezione chiusa, l’attesa in negozio, l’apertura affrettata, infine l’uso e il lancio.
Penso a quanti come me esistono nel mondo. Siamo la barriera, i guardiani.
E ci trattano come spazzatura, perché la verità è che tutto ciò che serve per pochi minuti viene buttato.
Mi domando se anche un poetastro come Bukowski avrebbe scritto di me. Forse sì.
Lo immagino con la bottiglia di vino in mano, seduto su un letto sfatto, mentre mi guarda con disprezzo e intuisce che io non morirò.
Lui, intanto, piscerebbe la sua anima nelle pagine di qualche poema sulla disperazione e poi se ne andrebbe a dormire con un rutto strozzato.
Io rimarrei lì, a ricordargli che l’immortalità è uno scherzo del diavolo.
Poi penso alla terra che li inghiottirà. Gente, legno, vermi. Polvere.
Io no.
Io giaccio, inerte ma eterno, in una discarica o in un inceneritore incompleto.
Forse finisco nell’oceano, a galleggiare tra plastiche e pesci morti.
Non mi scompongo. Ho una resistenza invidiabile.
Fuori, la città fa rumore. Penso a quante storie si ripetono ogni notte.
Mani che sfilano un pacchetto di preservativi dal bancone di un supermercato 24 ore, sussurri e baci frettolosi, un amplesso spigoloso e poi un rifiuto umido nel cestino.
Il giro eterno della miseria umana, mascherata da passione in saldo.
Non lo so come mi chiamo e resisto.
La morte mi evita. L’inferno non vuole un pezzetto di gomma inutile e il paradiso non contempla la mia esistenza.
Sono un clandestino senza paradiso né inferno.
Ma sono qui.
E non ho nessuna fretta di sparire.
Andrea Cacciavillani