L’aula di tribunale sembra un circo stanco. Un vociare di parole spezzate si incastra tra i banchi, come un puzzle senza pezzi giusti. Il giudice osserva da lontano con un sopracciglio leggermente alzato.
Non sembra troppo interessato alla solennità.
Alza una mano, silenzio. Poi indica me, il grande imputato.
«Lei avrebbe stravolto le definizioni dell’italiano, giusto?» chiede con tono piatto.
Faccio ruotare il collo.
«Stravolto è una parola forte. Io preferisco dire riposizionato.»
Uno dei giurati ridacchia. Nessuno gli chiede di spiegare.
L’avvocato dell’accusa, un tipo sottile come un refuso, si sistema la cravatta.
Si alza, sfiora il tavolo con le nocche.
«Riposizionato? Ha coniato termini nuovi. Può dirci perché ha deciso di confondere generazioni di studenti?»
Mi schiarisco la voce.
«Vede, ho preso “cane” e l’ho definito un “trasloco momentaneo di latrati”. Ho preso “sole” e l’ho ridotto a “circonferenza abbacinante a orario variabile”. Un gioco, un piccolo esperimento verbale. Qualcuno doveva pur farlo.»
Il giudice si tocca la fronte. Poi sorride in modo strano.
«Esperimento, dice… Sa cosa ne pensa la gente? Sono spaesati. Pronunciano frasi che non significano niente. Lei li ha costretti a pensare troppo. Lo sa che pensare fa male a molti?»
Scrollo le spalle. Mi siedo, anche se non me lo hanno chiesto. Le panche di legno traballano leggermente. Una guardia tossicchia. Non vuole che mi adagi troppo.
«Il linguaggio si evolve» commento. «Io ho solo dato una spintarella.»
In quel momento si alza un testimone, un lessicografo con gli occhi gonfi d’insonnia.
È lì per inchiodarmi. Eppure mastica le parole come fossero croccanti.
«Confermo che gli scritti dell’imputato hanno alterato i manuali di riferimento. Ha inventato definizioni e sinonimi improbabili. Ha rovesciato i significati di aggettivi basilari. In poche settimane ci siamo trovati con un esercito di termini slegati dal contesto. È caos puro, Vostro Onore.»
Sospiro. Caos. Che parola affascinante.
Penso che andrebbe ridefinita come “ordinata spina dorsale del disordine”. Ma tengo la bocca chiusa.
Il giudice bussa col martelletto sul legno, ma il rumore è fiacco.
«Bene. Signori, abbiamo un uomo che ha giocato con la lingua come fosse pongo. Ma non è stato divertente per chi doveva studiare, leggere, scrivere. C’è gente che non sa più se dire “ciao” è un saluto o un insulto. Pensi a un bambino che si ritrova frasi sconnesse nei libri. Come si difende?»
Incrocio le braccia.
«Io non mi difendo. Io mi spiego. Ho tentato di rimescolare i concetti. Volevo vedere se qualcosa di nuovo poteva fiorire. Ho forse sbagliato i toni, ma la curiosità, a volte, prende strade tortuose.»
Il pubblico sussurra. Una donna si copre la bocca per non ridere.
Forse le piace l’idea che un cane sia “un trasloco momentaneo di latrati.” Magari ha un cane a casa e ora lo osserva in modo diverso.
L’avvocato dell’accusa armeggia con un fascicolo e legge ad alta voce alcuni passaggi dei miei scritti. Frasi spezzate, definizioni irriconoscibili, teorie sulle parole che si sgretolano nella bocca di chi le usa. Il giudice scuote il capo come per dire “Siamo alla deriva.”
Poi tocca a me. Per chiarire o peggiorare le cose, non lo so.
«Quando un’espressione si logora, perde vigore. Io ho cercato di ricolorare alcune pagine ingrigite. Se la gente smette di cercare senso, la lingua muore. E la lingua non può morire, giusto?»
Il giudice mi osserva a lungo senza dire nulla.
Avverto un prurito in testa. Non mi gratto, per non sembrare nervoso.
Il pubblico ministero si risiede. Pare abbia speso tutti i suoi dardi.
Il giudice sospira, poi si alza dalla sedia: è basso, eppure ha un modo di imporsi quasi divertente.
«L’accusa chiede una punizione. L’imputato sostiene la libertà creativa. Noi siamo qui a decidere se la lingua può essere manomessa senza conseguenze.»
Un attimo di tensione.
Dalle finestre entrano fasci di luce obliqua, tagliano l’aula in segmenti casuali.
Il giudice apre un dizionario. Lo sfoglia: la gente trattiene il fiato. Un braccio si solleva.
«Qui c’è scritto: “giudice organo preposto all’amministrazione della giustizia.” E se io la rivedessi come “trasformatore di noie in finali certi”?»
La voce gli trema.
Scoppia un brusio.
«Cosa intende dire, Vostro Onore?» chiede l’avvocato dell’accusa.
Il giudice sbatte il dizionario sul tavolo.
«Forse l’imputato non ha tutti i torti. La lingua ristagna quando non la spingiamo al limite. Invece di condannarlo, potremmo imparare qualcosa.
Siamo liberi di dissentire, ovvio, ma la lingua non è un blocco di pietra. Capite?»
Silenzio. Un altro battito di martelletto, stavolta più deciso.
«Giuria, ritiratevi e trovate la sentenza. Fate presto: il nostro vocabolario si sta ampliando a vista d’occhio» dice, con un ghigno.
Dopo venti minuti, tornano tutti con espressioni sconcertate. Il portavoce non trova le parole. Senza preavviso, la luce vacilla, come se la corrente avesse un singhiozzo.
Poi succede l’assurdo.
Le lettere sulle carte processuali iniziano a scorrere via, si muovono, scivolano lungo i margini. La gente stropiccia gli occhi. I documenti si svuotano di significato e le parole scappano giù dal foglio, come formiche impazzite. Qualcuno grida che è opera mia.
«Che diavolo succede?» chiede l’avvocato, cercando di afferrare le frasi che scappano. Sbatte il fascicolo per aria, ma le parole ormai se ne sono andate.
Il giudice fa un passo indietro. Allunga un dito verso di me
«Le sue definizioni… si sono fuse con le nostre. Hanno scardinato la grammatica.»
Scrollo le spalle.
«Forse le parole si ribellano da sole. Cercano nuovi spazi.»
Qualcuno sbatte la porta e corre fuori dall’aula, urlando. La gente si riversa in corridoio per inseguire i frammenti di vocabolario che schizzano via sui muri.
Rimaniamo in pochi. Il giudice, io, la guardia che mi fissa senza sapere cosa fare.
«Non c’è più un’accusa scritta, né una difesa né un vocabolario. Tutto si è sparpagliato» dice il giudice, con gli occhi che brillano.
Si toglie la toga e la poggia sulla sedia come un cappotto in disuso.
«Processo chiuso, direi. Non abbiamo prove, né reati, né definizioni chiare da infrangere.»
Resto immobile, aspettando istruzioni.
Ma la guardia sprofonda in un silenzio rassegnato, lancia uno sguardo al giudice e poi a me.
Non sa se deve arrestarmi, scortarmi fuori o consegnarmi un nuovo vocabolario.
Allora ride, piano. Mi porge la porta.
Passo attraverso l’uscita. Solo un soffio d’aria tiepida mi viene incontro.
In strada, i passanti raccolgono sillabe da terra, le accarezzano, cercano di rimetterle al loro posto.
Alcuni ridono, altri imprecano, altri ancora se ne vanno senza dire nulla.
Una panchina arrugginita è vuota.
Guardo il cielo. Non ho idea di come definirlo. È un orizzonte spalmato, forse, o un manto fluttuante. Non lo so più.
Mi metto seduto. Le parole corrono libere.
E io, in fondo, credo fosse questo il mio sogno più nascosto.
Così resto lì. Mi lascio attraversare dalla follia che ho involontariamente liberato.
Un bambino mi si avvicina, mi porge una frase smarrita
«È sua?»
La leggo. Dice: “Fine attimo in cui cessa tutto tranne la possibilità di ricominciare.”
Gli sorrido. Alzo le spalle. Magari è una definizione buona. Magari no.
Poi la piego e la infilo in tasca, mentre la città, sulle labbra di chiunque, inizia a cantare parole mai viste.
Andrea Cacciavillani