La stanza puzza di desiderio. La tapparella fa passare un filo di luce incerta, come un ricordo scappato di mano.
Lei è lì, ferma, pelle lucida di un sudore affamato.
Niente parole, solo un ringhio sommesso dallo stomaco, un richiamo inarticolato che spinge a divorare tutto. Si comincia.
Antipasto
Il corpo si offre come un vassoio. Le sue labbra si schiudono, rugose di attesa.
Nessuna carezza dolce. Solo il graffio sordo delle unghie su una schiena che trema.
Odore di bottiglie vuote e voglia mal spenta.
Le sue mani si muovono. Dita che sbucciano, spellano, aprono come un coltello senza la grazia di un ristorante stellato, ma con la fame pura di chi ha dormito all’addiaccio.
La pelle si stacca dall’idea di pudore. Il calore sale lungo i fianchi.
Un brivido aspro e metallico. Non c’è nulla di elegante ma tutto risulta perfetto.
Mi mangia, mi strappa un pezzo alla volta, strizzando l’aria con la lingua.
I muscoli si tendono, le gambe si spalancano come tende usurate in un motel di periferia.
Non c’è carità, solo lussuria che avanza in silenzio.
La bocca trova zone umide, rosicchia, mordicchia, sussurra qualcosa che non ha bisogno di essere detto. Le pareti tremano, come se volessero spiare l’interno di quell’apertura oscura e golosa.
Un lampo di passione attraversa lo sguardo. Gli occhi chiedono, le mani ordinano. Niente dialogo, solo un invito a lasciarsi divorare interi. Niente tovaglioli, nessun modo per ripulire.
Si mastica il sudore, si respira il profumo acre che sa di notte insonne.
L’antipasto finisce in un sussulto di brividi e gemiti soffocati, come una fame che si è appena risvegliata.
Primo piatto
Le dita ora si muovono convulse, stringono i fianchi come posate che scalfiscono la carne.
Le mani afferrano, spingono, strappano lembi di respiro. I corpi si incastrano come utensili arrugginiti ma funzionano: graffiano, si incuneano, scivolano uno contro l’altro.
L’aria è satura di un odore misto di pelle e speranza. Una speranza sudicia, grondante vapore.
C’è un attimo in cui tutto si ferma. Un istante di sospensione, come fosse la preghiera prima del morso. Poi la bocca morde. Labbra che ingoiano, denti che scricchiolano. Non c’è pietà per la tavola appena apparecchiata. Il sangue corre più veloce, il cuore batte e si spezza come pane caldo e il ritmo della pelle contro pelle diventa un concerto sporco e sensuale.
Caldo appiccicoso, come linfa che sgorga senza tregua. Il respiro si mischia a un sapore simile a ferro. Qualcuno, da qualche parte, potrebbe gridare allo scandalo, ma qui non c’è altro che la perfezione della bestia.
Nessun menù raffinato, nessun piatto d’argento. Solo la consapevolezza di voler prendere e dare senza pause. Il corpo si abbandona, scorre, si lascia penetrare da una lingua che cerca i confini del piacere. Lo spazio si allarga e si stringe in un ciclo infinito, tutto si fa liquido.
Le membra cedono, un pezzo alla volta, come mura abbattute da un assedio lento e inesorabile.
Si cade su un materasso che geme con noi, complice spudorato.
Nessuna parola, nessuna battuta. Il primo piatto si consuma in un ringhio di cerniere che si aprono, di lenzuola che si attorcigliano. Non resta nemmeno una briciola di vergogna.
Secondo piatto
Adesso tocca a me. I ruoli si ribaltano come poltrone sfondate dopo una rissa.
Lei sta in ginocchio ma la testa rimane alta e la pelle vibra di desiderio.
Il respiro si fa più profondo, le cosce si aprono, scolpite da un fremito quasi sacro.
L’odore del suo corpo riempie la stanza, un aroma d’incenso profano che stordisce e allo stesso tempo invita a inginocchiarsi per rendere omaggio.
Mi chino. La carne davanti agli occhi è un panorama vasto e sconosciuto, un paesaggio che chiede di essere esplorato senza regole. Le mani scivolano su queste colline, saggiando il calore, spandendo baci che sanno di sabbia rovente. Tutto scotta, tutto brucia.
La bocca cerca, succhia, morde mentre la mente corre altrove e torna come un cane randagio che non sa dove dormire ma trova rifugio in un ansimo.
Lei si inarca, schiena tesa come un arco appena scoccato.
Il silenzio è un ruggito sommerso nei cuscini. Il corpo si piega, spinge, si perde in un istante di vertigine.
La testa gira, la vista si annebbia. Ogni lembo di pelle grida di voler essere posseduto, divorato come un pasto gratuito che sa di trasgressione.
La scena si consuma in un crescendo viscoso. Sudore e saliva, odore di vino versato sul pavimento. La pelle scivola e si ricopre di brividi. Le vene pulsano, i muscoli si contraggono.
Se un estraneo bussasse alla porta, non troverebbe altro che una distesa di corpi fusi, un banchetto osceno e sacro insieme, dove l’unica preghiera è un lamento soffocato.
Dolce
Lo zucchero arriva all’improvviso. Una scintilla dolciastra, una carezza maldestra sulla coscia.
Il gusto si mischia al sale del sudore, a quell’aroma di pelle che gronda voglia.
Non esiste un confine tra dolore e piacere. Le unghie si piantano sulla schiena, trascinano via brandelli di ragione, in cambio di un’estasi che morde la gola.
Le labbra si cercano, si mordono, s’impastano di saliva. Ogni contatto genera un’esplosione che divora l’ultima briciola di lucidità. Il battito nel petto impazzisce.
Sembra un applauso soffocato tra le pareti in penombra.
Niente parole, perché la scena parla da sé. La carne onora la carne, si fonde con un fremito animalesco e divino.
Nel fracasso dei corpi, nel disordine dei lenzuoli c’è una strana bellezza. Un attimo in cui tutto sembra avere un senso logico, come se la vita fosse soltanto questo. Un lungo banchetto consumato ad occhi aperti, mentre fuori il mondo si arrende a un buio privo di consolazione.
Ogni singolo muscolo urla di gioia e stanchezza, come dopo una corsa disperata che culmina in un traguardo mai programmato.
Il conto
Il caos si ferma, per un secondo. La stanza riprende fiato. Il letto scricchiola, le pareti si spengono, i corpi si distendono esausti. Il sudore si asciuga in fretta. La mascella fa male, i polmoni bruciano.
Siamo due sopravvissuti a una festa troppo grande per le nostre tasche.
Restano briciole di desiderio nell’aria, un silenzio che pesa come un conto salato.
Nessuno lo legge ad alta voce, ma sappiamo entrambi che non ci sarà resto.
Le mani si cercano ancora, in un gesto distratto, come un saluto stentato dopo una rissa tra amici.
Poi un sospiro. Uno sguardo. La promessa di un’indigestione che durerà per sempre.
Le lenzuola sono zuppe di ricordi. L’aria profuma di rimorsi incombusti.
Più tardi, forse, uno dei due penserà di pentirsi. Ma non oggi.
Oggi il tavolo è sparecchiato e la cena è già stata digerita… o forse no.
Le braci si spengono piano. E mentre gli occhi si chiudono, una vocina nella testa ride.
Ride perché sa che niente di tutto questo ci farà mai bene, eppure continuiamo a ordinare dal Menù della Perdizione come clienti affezionati, ridendo del conto, convinti che sia sempre l’altro a dover pagare. E in fondo, è così: il pasto più indigesto resta sempre qui, nelle ossa, come un dolce veleno servito a fine serata.
Sarcastico da fare schifo.
Ma, si sa, la fame è l’unico amore che non muore mai.
Andrea Cacciavillani