Entro nella sala d’attesa e subito sento un prurito fastidioso al naso.
Sedie allineate, moquette lisa, odore di disinfettante misto ad altro.
Mi siedo, senza capire se ho freddo o caldo
Un tipo in fondo, con i calzini bucati alla caviglia sta mangiando patatine a bocca aperta. Sta finendo il pacchetto, leccandosi le dita.
Sembra divertirsi a fare quel rumore molesto. Io mi siedo su una poltroncina che cigola. Mi guardo intorno.
C’è una ragazza con un berretto pieno di spille, schiena curva, sguardo perso sul cellulare. Ogni tanto sbuffa.
Sulla parete in alto, un orologio che segna sempre le sette e venti. Si vede la lancetta che pende inerte.
E poi una locandina stropicciata: “Dottor Brandi, specialista in…”. Il resto delle parole non si legge.
Un tizio con la barba disordinata strappa un bigliettino da un dispenser arrugginito. Legge il numero, fa una smorfia, lo accartoccia e lo lancia via.
Finisce contro la borsetta di una signora in piedi, che lo fulmina con uno sguardo.
“Sei scemo o cosa?” gli dice, senza alzare la voce.
Lui ridacchia. Io tiro su il bavero della giacca, come se dovessi proteggermi da una tempesta imminente.
Nessuno parla. L’aria vibra di noia e sospetto.
Uno strano fastidio mi sale dallo stomaco.
All’improvviso, la porta dello studio si apre. Compare una donna con un camice sformato.
Avrà cinquant’anni, forse di più, o forse di meno, ma tirata male. Dice un nome, voce rauca, sguardo stanco. Nessuno si muove.
Lei sbuffa, richiude la porta. Ci ritroviamo tutti qui, come bovini in un recinto scalcinato.
Il tipo con i calzini bucati si alza di scatto. Dà un’occhiata all’orologio fermo.
“Dovrebbero farne uno nuovo,” dice a mezza bocca. Non si capisce a chi parli. La ragazza col berretto scuote la testa.
“E dovrebbero pure cambiare quel neon,” dice con tono piatto. In effetti, il neon nell’angolo sfarfalla come una insegna di un motel.
Mi guardo attorno in cerca di un bagno. Ne vedo la porta, mezza socchiusa.
Qualcuno sta dentro da molto. Un’ombra fa avanti e indietro dietro il vetro smerigliato.
Uno sciacquone parte, poi si ferma. Le tubature cigolano come se stessero per crollare.
Un uomo robusto, con un cappotto lungo, mi si piazza davanti.
“Ti tocca aspettare,” dice. Non ha espressione.
Faccio spallucce e torno sulla sedia.
Dalla porta si sente un urlo. Breve, come un singhiozzo strozzato. Tutti ci guardiamo, in silenzio. La signora con la borsetta fa un passo indietro, quasi sperando di sparire nel muro.
Il ragazzo con la barba si alza, si stira la schiena. “Che diavolo succede lì dentro?” chiede. Nessuno risponde.
Altre urla, più forti, seguite da un tonfo. Sembriamo animali che annusano il pericolo, ma nessuno sa dove scappare.
La porta si spalanca. Stesso camice sformato, stessi occhi stanchi. Il tipo con i calzini bucati l’aggancia con lo sguardo: “Senta, che diavolo sta succedendo?”. Lei non reagisce, ma punta le dita ossute verso di lui: “È il tuo turno, entra.”
Lui esita, si guarda intorno. Poi entra. La porta si chiude. Silenzio. Il tizio robusto col cappotto prova a spiaccicare l’orecchio sul pannello di legno, ma non sente nulla.
Si gira verso di noi, scuote la testa. “Sto posto non mi piace,” mormora.
Passano minuti lunghi, tesi. La ragazza col berretto infila il cellulare in tasca e si mette a fissare il pavimento, come se stesse contando le mattonelle.
La signora con la borsetta si avvicina a un distributore d’acqua, preme il pulsante.
Ne esce solo un sibilo.
“Che schifo” fa lei, allontanandosi con la bocca secca.
La porta si apre di nuovo. Il tipo coi calzini esce di scatto, come se fosse stato spinto.
Mantiene l’equilibrio per miracolo, si aggrappa a una sedia. Sulla sua manica c’è una macchia rossa. Non è grande ma salta all’occhio. Lui cerca di coprirla, ma troppo tardi.
Ci lancia uno sguardo stravolto, il viso pallido come cenere.
“Hanno bisogno di un altro” sussurra. Poi crolla a terra, come se gli avessero tolto l’anima.
La donna in camice riemerge.
“Chi segue?” chiede, piatta. Nessuno si muove. Lei osserva il gruppo, stringe le labbra. Solleva il braccio, indica il tizio robusto.
“Tu. Muoviti.”
Lui ingoia saliva, deglutisce forte, entra. La porta si chiude. Un altro silenzio.
La signora con la borsetta corre verso il ragazzo a terra, prova a rianimarlo, ma quello è immobile. Respira? Forse un soffio, ma non c’è certezza. Sembra un ragno spiaccicato su un vetro. Io fisso la scena e sento un vuoto nello stomaco. La ragazza col berretto tira un calcio alla sedia, fa uno scatto e si avvicina alla porta.
“Basta, voglio vedere che succede” dice.
La porta non si apre.
“Bloccata,” dice lei, spingendo con la spalla. Io le do una mano, inutile. Dall’altra parte sentiamo un grido. Una voce maschile, il tizio robusto.
“Lasciatemi andare!” Poi un crash metallico. La signora con la borsetta urla:
“Vi prego, fermatevi!”
Un boato, come se una scaffalatura fosse crollata. Stridio di ferraglia. La ragazza con il berretto prende fiato, dà una spallata più forte.
Si stacca un pezzo di stipite. La porta cede di qualche millimetro. Dall’altra parte, rumori di passi concitati.
Mi metto in mezzo, cerco di forzare. Niente da fare.
Il ragazzo con la barba si avvicina. Ha in mano un coltellino minuscolo, lo fa scattare.
“Che ci fai con quello, scusa?” gli chiede la signora.
Lui non risponde, punta la lama sullo spiraglio della porta, fa leva. Una crepa si forma, il legno si scheggia.
Da dentro sento un altro tonfo, un urlo soffocato. Il cuore mi batte in gola.
Finalmente la porta si spalanca. La ragazza col berretto entra di slancio. Io la seguo. La signora resta in corridoio, terrorizzata.
Il tizio con la barba passa per terzo. Dentro, luce fioca. Tavolo operatorio in mezzo alla stanza. Siringhe sparse.
Un macchinario che emette bip intermittenti, come un cuore elettronico.
Sul tavolo, vedo il tizio robusto, immobilizzato. Ha cinghie ai polsi e alle caviglie. Agita la testa, urla. La donna in camice e un altro tizio con mascherina lo fissano.
Il tizio in mascherina brandisce un bisturi. E c’è sangue, su guanti e strumenti. Molto.
Ma non è un intervento normale. Sembra un sacrificio.
La ragazza col berretto resta impietrita per mezzo secondo, poi si lancia verso il tizio con la mascherina. Lo colpisce con una spinta sul braccio, il bisturi cade.
La donna in camice prova a bloccarla. Urla:
“Non toccare! Sei pazza?!” La ragazza le molla un calcio, la fa indietreggiare. Il tizio con la barba corre a slegare il robusto, che urla ancora.
Mi guardo intorno: c’è un armadietto aperto, colmo di sacche di plastica. Dentro, liquido rosso. Ogni sacchetto ha un’etichetta con un numero. Ognuno diverso.
Non sono sacche da trasfusione normali. Sembrano… trofei.
La donna in camice si rimette in piedi, afferra una siringa. Corre verso di me, occhi iniettati di rabbia. Sbatto la schiena contro il muro, cerco di evitare la puntura.
Lei grida invasata. Vedo i suoi denti digrignare.
“Tu non capisci! Servono cavie, servono test! Se scappi, rovini tutto!”
La ragazza col berretto afferra uno strumento metallico da un carrello e colpisce la donna alle spalle. Questa cade, la siringa vola via. Io la calpesto, si spezza.
Faccio un passo indietro, guardo la scena. Il tizio con la mascherina prova a riprendere il bisturi a terra.
Gli piombo addosso, lo spingo contro il tavolo. Sbatte la fronte sul bordo metallico, emette un gemito.
Il robusto è libero dalle cinghie, barcolla, ha un taglio su un fianco. Respira a fatica.
“Mi hanno iniettato qualcosa” mormora. Il ragazzo con la barba lo sorregge. La stanza è un caos di sangue e strumenti buttati a caso.
Poi la donna in camice si rialza, gli occhi folli. Apre un cassetto, tira fuori un’altra siringa riempita a metà.
“Non mi fermo, è il mio dovere” grida.
Corre verso il robusto, vuole bucargli il collo. La ragazza col berretto l’anticipa, la spintona contro il muro.
La donna perde la presa, la siringa si schianta sul pavimento. Il liquido scorre tra le crepe. Lei si accascia.
Un attimo di silenzio. Io sto per parlare, ma il tizio in mascherina si rialza.
“Non andate via” dice con voce roca, “Non avete idea di cosa c’è in gioco.”
Poi ride, un suono sgradevole, tagliente. Fa un passo verso di noi, ma il robusto si volta e gli sferra un pugno.
Il colpo lo raggiunge in pieno volto.
Sembra finita. O forse no. Il robusto si porta la mano al fianco e scuote la testa, comincia a tremare. La ragazza con il berretto si avvicina.
“Che hai? Respira.” Lui la guarda, occhi spalancati. “Mi hanno iniettato roba… mi sento…”
Si ferma, si piega in due. La bocca si contrae. Un fischio strano gli esce dalla gola. Poi vomita un liquido scuro. Crolla.
La ragazza prova a tenerlo in piedi, ma lui si divincola, come un animale impazzito. Striscia sul pavimento. Respiri affannati, colpi di tosse che sembrano latrati.
Poi un ultimo sussulto. Smette di muoversi.
La donna in camice, rannicchiata in un angolo, sorride. Una risata inquietante.
“Era una fase sperimentale. Troppo avanti per voi. Non lo avreste capito” Poi la sua testa cade in avanti, come se si fosse spenta.
Io la fisso, paralizzato.
Un bagliore improvviso. E tutto scompare.
Mi risveglio di colpo, la fronte sudata.
Accanto a me, una signora mi scuote piano la spalla.
“Giovanotto, tocca a lei. Sta dormendo da mezz’ora.”
Alzo lo sguardo, ancora confuso. La porta si apre, il dottore mi sorride.
“Prego, è il suo turno.”
Tiro un sospiro, mi alzo. Mentre entro, mi volto e vedo il tizio coi calzini bucati… che mangia patatine.
La signora mi fa un cenno gentile. Sorrido come uno scemo.
“Mai più peperonata la sera.”
Andrea Cacciavillani