Sbircio il tavolo. Plastica bianca, macchioline qua e là.
Mia madre sposta piatti senza sosta. Mio padre struscia la sedia in silenzio.
Lo sguardo fisso sul pane.
— Hai fame? — chiedo.
Lui solleva il mento. Occhi bassi.
Un grugnito. Sposta il cestino del pane verso di me.
Lo ignoro. Ho il bicchiere mezzo vuoto. Vino rosso, un po’ acido. Ne bevo un sorso. Brucia in gola.
Mia sorella entra in cucina. Tacchi alti, passo incerto. Tre colpetti sul tavolo con le nocche.
— Qualcuno ha visto il coltello grande? — chiede.
Nessuno risponde. Lei solleva il coperchio della pentola e annusa.
— E chi ha lasciato il fornello acceso? — sbotta.
Sento un raschio alla gola.
— Papà — dico.
Lui scuote il capo.
— Non mi rompere — fa lui.
Silenzio. Poi lei spegne il fornello.
Tira fuori un mestolo. Mescola piano. Una nuvola di vapore.
Non c’è profumo, solo calore appiccicoso.
Mi accomodo a capotavola. Non è il mio posto, ma lo prendo.
La sedia è instabile, una gamba traballa. Sento lo sguardo di mia madre. Labbra serrate, mani sui fianchi.
— Ti credi il padrone, adesso? — chiede a bassa voce.
Le rispondo con un sorriso sghembo.
Briciole tra i denti. Un filo di vino sul labbro.
Arriva lo zio. Bussola in mano, dice che si è perso per strada.
Mugugna qualcosa su un cartello stradale storto. Si siede. Tira fuori un tovagliolo dal taschino.
Ci si soffia il naso. Poi tamburella sul bordo del piatto, come se non vedesse l’ora di attaccare.
Mio cugino compare con lo smartphone puntato. Riprende tutti. Zoom sul pollo, zoom sulle facce. Ride.
— Serve un po’ di contenuto per i miei follower, — dice.
Click, flash, click. Schiocca le labbra, passa in rassegna i volti. Alla fine si concentra su di me.
— Zitto — gli dico.
E lui riprende, imperterrito.
Mia madre posa una zuppiera di pasta sul tavolo. Grassosa, fumante. La superficie ondeggia come lava.
— Mangiate — ordina.
Nessuno replica. Piatti che strisciano. Forchette che grattano. Nessun elogio, nessun “buono.”
Tutto muto. Mastichiamo.
Mi guardo intorno. Mio padre inala i rigatoni con metodo. Mia sorella gira l’occhio sul cellulare.
Lo zio contempla la pasta, sembra voglia succhiarla fino all’ultima molecola.
Mio cugino mastica con una mano e scrive col pollice nell’altra.
Mio fratello entra per ultimo. In ritardo cronico. Capelli arruffati, occhiaie.
Tira via la sedia, si siede e allunga un braccio verso il pane. Lo addenta senza tagliarlo.
— Sapevo che saresti arrivato ora — dico.
— Sto qui, no? — risponde. Si stropiccia la nuca. Poi si riempie il piatto di pasta.
— Hai novità? — chiede mia madre a mio fratello.
Lui fa spallucce.
— Sto pensando di mollare il lavoro.
— Ancora?
— È una trappola. Capo invadente. Zero prospettive. Meglio un salto nel vuoto.
— Ti piace perderti? — chiede lo zio.
— Sì, zio. Mi piace. Meglio che stare qui a fingere.
Tutto si blocca. Forchette sospese. Occhi su di lui. Mia madre si soffia il naso con un gesto secco.
— Non ti lamentare, — dice.
Lui incrocia le braccia, punta lo sguardo sul pavimento.
Poi cambio scena. Papà si alza. Avanza verso il lavandino.
Getta la pasta avanzata nella pattumiera. Rovescia la pentola senza grazia. Un fiotto di sugo schizza. Macchia le piastrelle. Silenzio.
— Finito — dice.
— E il dolce? — chiede mia sorella.
— Chi lo vuole? — ribatte mio padre.
— Io — salta su il cugino.
Papà apre il frigorifero. Estrae un vassoio coperto di pellicola. Lo lancia sul tavolo.
— Eccolo. Che siate felici.
La torta traballa. Crema troppo densa, pan di Spagna gommoso.
Mia madre scompare in corridoio, non la vediamo più. Lo zio taglia la fetta. Un colpo secco.
Bricioline filano sul tavolo come formiche impazzite. Assaggia. Non reagisce.
— Vuoi un pezzo? — mi chiede il cugino.
— Sto bene così.
— Sei a dieta?
— No, solo nauseato.
— Bella scusa — ridacchia lui, inquadra la fetta con la fotocamera.
— Spegni, — dico.
— Relax, nessuno ti guarda davvero.
Mio padre apre una birra. Beve direttamente dalla bottiglia. Il glug glug risuona. Poi mi fissa.
— Non fare lo scontroso.
— Figurati.
— Guarda che questa vita è tutto quello che hai.
Stringo le labbra. Sento la sedia che s’inclina.
La stanza puzza di cibo cotto e tensione. Vedo il cielo dietro la finestra.
Grigio compatto. Voglia di aria. Mia sorella guadagna la porta.
— Scappo — dice.
— Grazie per l’aiuto — ribatte papà.
Lei ignora. Se ne va. Tacchi che sfregano sul pavimento.
Mio cugino segue. Con lo smartphone in mano filma la schiena di mia sorella.
— A dopo — dice senza guardare indietro.
Rimaniamo in quattro. La tv in sottofondo spara notizie. Un talk show. Urla di gente in giacca e cravatta.
Papà cambia canale. Un documentario su animali in pericolo. Elefanti, fango, zanne spezzate.
— Odio questo programma — mormora.
— Ho finito anch’io — dice mio fratello.
— Vai — sbotta papà.
Lui annuisce. Mi lancia uno sguardo di saluto. Io ricambio con un mezzo cenno del capo.
Pausa. Rimaniamo io, mio padre, mio zio, la pentola vuota e la torta sbocconcellata.
Silenzio artificiale.
— Non avresti dovuto prendere quella sedia — dice.
— È colpa della sedia se siamo così? — ribatto.
— Meglio se ti fai una vita tua.
— Ce l’ho già.
Mi tiro su. La sedia scricchiola. Cammino verso il corridoio. Mi fermo davanti a uno specchio. Vedo il riflesso. Non lo riconosco.
Spengo la luce, passo oltre.
Apro la porta d’ingresso. Odore di strada, di automobile e di catrame.
Dietro di me un rumore di bicchiere infranto. La voce di mio padre che impreca.
Esco senza girarmi.
Sul marciapiede, incrocio mia madre. Sta fumando. Una sigaretta sottile.
Un tiro lungo. Non mi guarda. Penso di tornare in casa, ma resto lì. Lei butta la sigaretta in un vaso mezzo rotto.
— Stai andando via?
— Sì.
— Ancora?
— Ogni volta come fosse la prima.
Lei solleva lo sguardo. Occhi rossi.
— Era per stare tutti insieme.
— Già — dico. E non aggiungo altro.
La pioggia cade. Gocce rade, poi più fitte. Mia madre alza il bavero.
Io mi infilo le mani in tasca. La guardo. Penso che abbia le spalle strette. Mi pare più piccola.
— Torno su — dice lei, sottovoce.
— Fai come vuoi.
Rimaniamo immobili. La pioggia ci bagna. Lei rientra. Io resto fuori.
Il palazzo davanti ha finestre buie. Tutto sembra spento.
Un gatto attraversa la strada, bagnato. Mi guarda, si ferma. Io scuoto la testa, lui mi fissa. Poi scompare dietro un’auto.
In quel momento arriva il cugino, col telefono puntato. Mi filma sotto la pioggia.
— Sorridi — dice.
Io esito. Piego un angolo della bocca.
— Metterò un effetto speciale. Tipo che ti trasformi in un manichino — dice ridendo.
Prende una palla di carta da terra, la lancia in aria, la riprende al volo.
— Tutto per un bel contenuto, no?
Poi succede: dietro di lui, il gatto ricompare. Balzo felino sulle sue spalle.
Un urlo, il cellulare cade. Finisce in una pozzanghera.
Schermo in frantumi. Il gatto salta via, agile, un lampo di pelo bagnato.
Il cugino cerca il telefono, lo afferra, lo gira. Display nero.
— No, no, no…
Prova a rianimarlo. Niente. Un boato di tuono. Lampi. Lui rimane lì, impietrito, gocce in faccia, smartphone morto in mano.
Io rido. Una risata strana, scorticata, senza controllo. Una risata che si mischia al tuono.
Mi volto e vedo la finestra della cucina. Papà con la birra stretta in pugno. Mia madre dietro di lui, il braccio sollevato come per chiamarmi.
Lo zio con la bocca spalancata. Mia sorella oltre, con un biscotto tra i denti. Mio fratello dietro tutti con lo sguardo perso.
Guardo il cielo. Pioggia dritta in faccia, come aghi freddi. Tiro un colpo di tosse. Un colpo secco.
Poi alzo la mano verso di loro. Un saluto. Come un’uscita di scena.
Nessuno sa bene cosa fare. Il cugino rimane con il telefono morto. Il gatto se n’è andato.
La famiglia è incorniciata da quella finestra, tutti zitti, immobili.
Io mi allontano lungo il marciapiede. Rallento i passi, poi accelero.
Qualcosa dentro si scioglie. Sento un calore sottile.
Un’idea di libertà, forse.
E penso che, in fondo, è stato un grande pranzo di famiglia.
Andrea Cacciavillani