L’uomo sedeva su quella sedia sgangherata, le gambe che tremavano appena.
Un veterano della fatica, gli anni che gli avevano piegato la schiena come un ramo carico di neve.
Il posacenere sul comodino era pieno di mozziconi spenti male.
L’odore di fumo stagnava nell’aria.
Un vecchio lampadario oscillava piano. Un ragno quasi invisibile tesseva i suoi fili tra un braccio e l’altro di ferro.
Silenzio rotto dal ronzio di un frigorifero in cucina.
Non c’era amore in quella casa. C’era qualcosa di diverso: un residuo, un fantasma.
Aveva portato i figli a scuola, aveva pagato il mutuo, aveva raccolto le briciole di un’esistenza corretta.
Ora, il tempo del dovere si era dileguato. Restava quella stanza fioca, con l’ombra di una lampada e il contorno di lei, appoggiata allo specchio come una statua sacra.
Sulle sue spalle, lui sentiva ancora i graffi di un mondo che chiedeva. Ma per la prima volta, avvertiva il rombo di un motore fermo da troppo tempo.
Lei stava in piedi di fronte allo specchio, la schiena leggermente arcuata.
Le mani iniziarono dal primo bottone della camicetta, quello vicino al collo. Lo slacciò con lentezza, lasciando intravedere un’ombra di pelle. Il gesto era studiato, un rituale che sapeva di sfida.
La stoffa si apriva piano, un varco che scopriva la clavicola e poi il solco tra i seni.
Ogni bottone che saltava segnava un ritmo. Lei spostava il peso sul piede sinistro, poi sul destro.
Le anche disegnavano un’onda quasi impercettibile, ma bastava a colpire l’aria di elettricità.
Non c’erano parole, soltanto il sibilo del tessuto che si separava dal corpo.
Il reggiseno era nero, un velo che strizzava le forme.
Si intravedevano i contorni di un desiderio trattenuto a stento.
La camicetta scivolò lungo le braccia. Lei la lasciò cadere a terra, senza distogliere gli occhi dallo specchio. Portava una gonna aderente. Fece scorrere la mano lungo la cerniera sul fianco, con lentezza, come se stesse assaporando ogni millimetro.
Quando la gonna cadde, scoprì cosce sode, segnate da piccole imperfezioni che parevano tatuaggi di storie vissute. L’incavo tra le gambe era protetto da un slip di pizzo, un filo sottile che rivelava più di quanto coprisse.
Nessun imbarazzo, nessuna fretta. Lei girò leggermente il busto, lasciando che la luce della lampada svelasse la linea della schiena e il profilo dei fianchi.
L’elasticità di quei movimenti aveva qualcosa di felino, un richiamo arcaico che bruciava negli sguardi.
Il letto dietro di lei era disfatto. C’era un intimo nero. Lei lo aveva disposto con cura, come un’offerta sacrificale.
Nulla di elegante. Solo la prova che il corpo non aveva dimenticato il proprio furore. L’uomo osservava e pensava a tutti i momenti in cui aveva negato se stesso. In cui aveva detto “non posso” o “non devo”. Adesso, un fuoco saliva da dentro.
Sentiva la bocca amara, la voglia di un sorso di alcol, la nausea di troppi rimpianti.
La donna non era giovane. Aveva rughe leggere intorno agli occhi ma le spalle si muovevano con grazia.
Sul comodino, una bottiglia di vino era ancora chiusa. Lui la fissò.
Un desiderio di ubriacarsi, di buttare giù il rispetto insieme alle bugie.
Ma rimase fermo. Sentiva le ginocchia molli. Aveva vissuto di regole, aveva un’anima che si era rassegnata a non chiedere nulla. Eppure qualcosa ruggiva dentro.
Le sue dita presero a liberare i capelli, scostandoli dal collo. Il riflesso nello specchio tradiva un lampo di soddisfazione. Poi si chinò a raccogliere la camicetta dal pavimento, i seni si muovevano oscillando con grazia. Ogni piega del pizzo sembrava aderire alla pelle, come un serpente che abbraccia la preda.
Volse di nuovo lo sguardo allo specchio, incrociò il suo stesso riflesso e sorrise con un angolo della bocca. Prese un respiro profondo, gonfiando il petto. Fece scivolare un dito sotto il bordo del reggiseno, lo spostò quel tanto da far intravedere l’aureola chiara del seno.
Uno svelamento lento, quasi crudele, che illudeva di poter vedere tutto ma non ancora.
Si girò di lato e allungò il braccio verso il letto, dove l’intimo di riserva era disposto come un trofeo. Ogni passo era un invito, ogni curva un gancio che tirava dentro chi la guardava. Il movimento dei polpacci, dei piedi nudi sul tappeto, scandiva un ritmo ipnotico. Le punte delle dita sfiorarono il pizzo nero poggiato sul materasso: un reggiseno più audace, uno slip ancor più succinto, quasi inesistente.
Lei si voltò ancora, mostrando il profilo del ventre, teso e morbido allo stesso tempo.
L’ombelico era una piccola cavità in cui si annidava l’ombra.
La pelle luccicava sotto quella luce gialla, come coperta da un velo di seta invisibile.
Poi, con un gesto lento, come se stesse sfilando in passerella, si slacciò il reggiseno che aveva addosso. Lo fece scivolare sulle braccia, rivelando i seni pieni, segnati da qualche sottile vena blu, testimonianza di un corpo vivo. Li lasciò liberi senza fretta, un atto di coraggio e di potere.
Lo sguardo allo specchio restava fermo, consapevole di ogni effetto, di ogni scintilla.
Infine, agganciò il pollice nello slip, lo fece scendere sui fianchi. La stoffa aderiva alle cosce, scivolava piano, rivelando la piega più intima. Non c’era timidezza, solo la certezza che il corpo fosse un dono, un’arma, un desiderio incarnato.
Lei rimase immobile un istante, in quella nudità che non aveva più niente da nascondere.
Ruotò la testa appena, un riflesso di luce sui capelli scompigliati. Le braccia si alzarono sopra la testa in un gesto morbido, come se volesse stirare i muscoli. Il ventre si contrasse appena, i seni si sollevarono. La schiena si inarcò, offrendo allo specchio una visione completa. Respirava piano, ma era un respiro carico di promesse.
Senza mai distogliere gli occhi dal riflesso, mosse un passo verso il letto. Ogni porzione di pelle vibrava alla luce, le gambe si incrociavano in un passo felpato.
Lei si chinò sul materasso, raccolse il nuovo completino e si voltò di scatto, come per controllare che lo sguardo fosse ancora lì, avvinto, ipnotizzato. Le ciocche di capelli le sfiorarono le spalle.
Poi, con la stessa lentezza, iniziò a rivestirsi di quel pizzo, arrampicandolo sulle cosce, accomodando i seni nei triangoli quasi invisibili del reggiseno. Ogni singolo movimento era un atto di potere sensuale, un invito a superare il confine tra la quiete e l’abisso.
E il suo sorriso finale, rivolto allo specchio, suggellava la certezza che nulla sarebbe rimasto uguale dopo quel rito.
L’uomo di alzò dalla sedia. I suoi piedi cercavano un appiglio, un coraggio che non sapeva di avere.
Gli sembrava di avere di nuovo vent’anni, con l’ardore di chi vuole conquistare il mondo.
Eppure sapeva bene di non poter tornare indietro.
Aveva consumato i giorni tra una coda al supermercato e un sorriso di circostanza a Natale.
Adesso, davanti a quello specchio, voleva solo capire se poteva ancora mordere la vita, anche se poco, anche se con denti incerti.
La tensione nella stanza si fece più densa. Nessuno parlava, solo respiri. Il cuore di lui rimbombava.
E nella testa, una frase: “Svegliati, vecchio idiota, afferra qualcosa prima che l’ultima porta si chiuda”.
La raggiunse, le sfiorò la schiena. Il contatto fu semplice, un tocco leggero. Lei chiuse gli occhi.
L’uomo sentì un brivido, un ritorno. Le mani si spinsero sui suoi fianchi, cercando di trattenere la paura.
Non c’era nulla di romantico o delicato, solo necessità, fame, l’idea che domani potrebbe essere tardi.
Lei non parlava, lasciava che fossero le dita a raccontare. Fece scivolare la sua mano su quella di lui.
Un gesto di complicità, di guerra e resa. Lo portò verso il letto.
L’uomo cercò di aprire bocca per dire qualcosa ma le parole si persero.
Le mani di lei trovarono la cintura dei pantaloni. Un gesto rapido, senza incertezze. Lui sentì che non poteva tornare indietro. Avvertì l’odore della sua pelle, un misto di sapone e desiderio.
S’incrociarono gli sguardi, pieni di rabbia, di tristezza, di un erotismo che scardinava le porte.
E tutto divenne confuso. Il letto che scricchiolava, il respiro che si faceva affanno, i ricordi di una vita rispettabile che si infrangevano come bicchieri caduti da un tavolo.
Non c’era grazia, non c’era delicatezza. Soltanto l’urgenza di un ritorno alla carne, alla possibilità che anche un vecchio leone possa ringhiare ancora. I muscoli arrugginiti di lui tentavano di resistere, di ricordare come si faceva a divorare il mondo. Il cervello bombardava di immagini. Pranzi di Natale, prime comunioni, mutui, notti insonni, pannolini. Tutto si mescolava nella stanza, come una tempesta che lo spazzava via.
A un tratto, sentì un fragore alla porta. Un colpo secco. O forse se l’era immaginato.
Si fermò, il fiato spezzato.
Lei rise piano, senza staccare il corpo dal suo.
Ma poi ci fu un secondo colpo, più forte.
L’uomo si alzò di scatto.
Lei si mise a sedere, la fronte aggrottata, il petto che si sollevava e abbassava.
Un terzo colpo, un pugno contro il legno.
L’uomo si passò una mano tra i capelli sudati, si tirò su i pantaloni.
Lei confusa indossò l’intimo in fretta, senza una parola. Lo guardò con uno sguardo che mescolava lussuria e paura. La porta tremava di colpi.
Era il momento di decidere se l’uomo che era riemerso avrebbe retto l’urto dell’imprevisto. Fece un respiro profondo, andò verso l’ingresso. Sentiva alle spalle il battito dei propri passi e, dietro, il respiro di lei che si ricomponeva. Con la coda dell’occhio la vide infilarsi la camicetta, abbottonarla senza fretta.
L’uomo aprì la porta di scatto e vacillò. Sull’uscio, una figura ossuta, coltello fra le dita.
Un ghigno malato, la giacca lisa, l’odore di rancido e disperazione.
Senza una parola, l’intruso lo spinse e si fece largo nella stanza.
Lo sguardo corse sulla donna ancora spettinata, sui vestiti sparsi, su quell’intimità spezzata.
L’uomo si sentì bruciare il petto. Erano anni che ingoiava ogni reazione ma adesso la furia gli salì come lava. Afferrò il braccio armato e lo torse con forza. Il coltello cadde, l’intruso grugnì e sferrò un pugno allo stomaco. L’uomo piegò le ginocchia, poi reagì. Un urlo sordo gli risalì in gola mentre lo scaraventava contro la parete. La donna, immobile, si copriva la bocca con una mano, le unghie che affondavano nelle labbra, lo sguardo fisso su quel corpo a corpo brutale.
Pugni, sputi, vetri di rabbia negli occhi. Il coltello scivolò lontano, inutilizzabile. L’intruso colpì con un calcio basso, l’uomo gli piantò il ginocchio nel fianco. Un colpo secco alla mascella, poi un altro, fino a quando l’intruso franò a terra. Il petto ansimante, gli occhi arrossati di odio e paura.
Un rivolo di sangue gli colava sul mento.
L’uomo si chinò, voleva vedere in faccia il nemico. Gli strinse i capelli, tirò su il viso cianotico.
Le pupille si dilatarono in un lampo di orrore: guardava se stesso.
Stessi lineamenti, stesse rughe d’espressione.
Uno specchio distorto rifletteva la sua colpa, la sua rabbia, la sua resa.
Scattò indietro chiuse gli occhi, scacciando la visione.
Quando li riaprì, il corpo a terra era sparito. Anche il coltello.
La donna si alzò dal letto, si coprì con la camicetta ancora in disordine e si avvicinò a lui con passi cauti.
Sul suo viso si alternavano sgomento e sollievo, come se temesse di sfiorare un fantasma.
L’uomo si portò una mano al costato, lei gli prese le mani tremanti, poggiò la fronte contro la sua spalla.
In quel contatto, lui sentì la tensione sciogliersi.
L’uomo inspirò e le sue spalle si abbassarono piano. Guardò la bottiglia di vino ancora intatta, i mozziconi nel posacenere, la camicia che le copriva appena i fianchi.
Nessun nemico, se non quello che covava dentro di lui.
Sconfitto. Per il momento
Andrea Cacciavillani