Stavo sul marciapiede.
Pioggia sottile scendeva. Guardavo l’asfalto. Passi sparsi, luci spente, qualche finestra socchiusa.
Non volevo parlare. Non volevo guardare nessuno. Sentivo la gola secca.
Il vento soffiava tra i palazzi, fischiava sui cartelli, scavava nelle mie orecchie. Chiudevo gli occhi, inspiravo quell’odore di strada.
Poi la vidi. Una lacrima sul cemento, tremante, scivolava verso un tombino.
Pensai: “La strada piange.” Mi parve assurdo. Ma era tutto lì: una ferita a terra, un segno muto. Alzai il viso.
Il vento urlava. Spirava rabbia, batteva sui vetri, scuoteva la lamiera. Mi sentii piccolo.
Tirai fuori una sigaretta. Provai ad accenderla, ma la fiamma moriva. Tossii, sputai a lato. Nessuno si fermava.
Solo macchine, clacson in lontananza.
Camminai senza meta. I lampioni vacillavano. Gocce scure cadevano a intermittenza.
Intravidi un cane, magro, pelo bagnato. Annusava la notte. Girava il muso, annusava di nuovo. Cercava briciole o calore.
Mi avvicinai, allungai una mano. Lui mi guardò, occhi stanchi, muso colante. Non ringhiò, non scappò. Restò fermo.
Noi due, sotto quella pioggia.
Mi tornò in mente la frase che avevo in testa da ore: “La strada piange, il vento urla, un cane annusa la notte.”
E io? Io ingoiavo silenzi. Sentivo quell’onda nera nel petto. Nessuna parola usciva, nessun urlo.
Lasciai scorrere tutto dentro. Forse era meglio così. Una malinconia densa, come un vuoto che non si colma.
Il cane mi seguì. Procedevamo tra i portoni. Ogni tanto si fermava, annusava un gradino, un sacco sporco, un pezzo di carta. Io proseguivo, testa bassa.
Intravidi una vetrina spenta, riflesso sbiadito del mio viso tirato. Volli ignorarlo. Mi sentivo come quella strada: sporca, segnata, esausta.
Arrivai a un incrocio. Semaforo lampeggiante, nessuna auto. Attraversai di slancio.
Il vento mi tagliava le guance, fendeva i pensieri. Senza gridare, semplicemente mi faceva male.
Guardai il cane, lo chiamai con un fischio. Mi raggiunse, agitò la coda. Non c’erano parole.
Lui viveva così, in punta di zampe, sempre in ascolto di qualche odore.
Mi rifugiai sotto una pensilina rotta. Plastica crepata, scritte sghembe, mozziconi sparsi. Niente riparo.
La pioggia filtrava. Pensai di fermarmi, restare lì, aspettare l’alba o qualcosa di simile. Ma non riuscivo a stare fermo.
Sentivo un grido nel petto, un nodo in gola. “Io ingoio silenzi,” ripetevo. Era la mia verità.
Ogni goccia, ogni passo, ogni lampione spento mi confermava quel vuoto.
Un ricordo mi morse il cervello: quella notte passata a scrivere versi senza speranza, quella voglia di urlare contro muri e specchi.
Nulla era cambiato. Ero di nuovo per strada, con un cane randagio e un vento che affondava i denti nella carne.
Tornai a camminare. Gambe stanche, occhi gonfi.
Al termine di un vicolo scorsi un’insegna fioca, una porta socchiusa. Mi avvicinai. Dentro, luci basse. Tavoli sparsi, un bancone macchiato, poche anime in ombra. Entrai e mi sedetti in un angolo.
Il cane rimase fuori, accucciato. Presi una birra. Bevvi a piccoli sorsi, senza fretta.
Osservai le persone. Volti spenti, mani aggrappate ai bicchieri, pensieri che scivolavano.
Nessuno parlava, o forse non li sentivo.
“La strada piange, il vento urla, un cane annusa la notte e io ingoio silenzi.”
Era ancora lì, nella testa, come una lama che scava. Sentivo il peso di quelle righe, sentivo che dovevo trasformarle in qualcosa.
Eppure le tenevo sepolte, come un segreto.
Quando finii la birra, mi alzai. Uscii nella pioggia. Il cane mi guardò. Lo accarezzai. Non dissi nulla. Lo presi con me.
Seguimmo la strada, passammo oltre case oscure, superammo semafori rotti, attraversammo piazze vuote. Al primo raggio di luce, la pioggia si spense. Mi voltai verso il cane, lui annusò l’aria. Sorrisi senza dire nulla. Lasciai andare i silenzi. Li vidi evaporare come fumo. Sentii un filo di pace. Forse quella frase era diventata carne, vita. Forse stavo imparando a respirare.
Non mi chiesi altro. Il cane avanzò di qualche passo, scodinzolò.
Lo seguii.
Non c’era più vento, non c’era più pianto.
Solo asfalto bagnato e un orizzonte timido. Mi chinai, presi una manciata di pioggia dalla pozzanghera.
La lasciai scivolare tra le dita. Ogni goccia era un addio, ma anche un inizio.
Ero vivo e non volevo più tacere.
Andrea Cacciavillani