La notte era scesa da un pezzo. L’aria sapeva di benzina e piscio.
Dall’altra parte della strada, il neon del bar lampeggiava incerto, come una sigaretta tirata male.
Era un posto da sbronzi, da uomini senza lavoro e donne con troppo.
Lei era lì. Non c’era motivo, non c’era scusa. Forse solo l’eco di un passato che non le apparteneva più, un nome dimenticato tra i vicoli, una vita lasciata indietro come un vestito troppo stretto.
Solo il corpo accovacciato, la pelle sporca di qualcosa che non era solo sudore.
Gli occhi fissi oltre la strada, verso il bar o forse oltre ancora. Sembrava uno di quei gatti randagi che trovi sotto ai camion, con le ossa dure e la voglia di vivere ridotta a un riflesso.
Dal bar uscì uno con la camicia aperta. Non era giovane, ma si credeva ancora forte. La vide. Si fermò. Tirò su col naso e poi sputò per terra.
“Sei persa?”
Lei non rispose. Le mani quasi affondavano nel cemento come artigli.
L’uomo si avvicinò di un passo, poi di un altro. Lei alzò la testa lentamente, la bocca appena aperta, la lingua contro i denti.
“Sei sorda?” disse lui.
Lei scattò. Non come una donna, non come un animale, ma come qualcosa che aveva dimenticato di essere umano. Il pugno colpì l’uomo in faccia. Non era forte, ma bastò. Lui indietreggiò, inciampò sul marciapiede, cadde sul culo.
Lei si alzò in piedi. Era magra, lunga, ossa sotto la pelle. Gli occhi neri. Il respiro calmo.
“Cazzo…” borbottò l’uomo, tastandosi la bocca. Non c’era sangue. “Ma che diavolo”
Lei si voltò e camminò via, scalza, silenziosa. La notte la ingoiò in un vicolo.
L’uomo restò lì seduto, senza sapere se ridere o sentirsi un idiota.
Nel bar, qualcuno aveva visto. Qualcuno rideva.
Lui si rialzò, si sistemò la camicia e rientrò nel bar.
Fuori, la città continuava a respirare, lenta, pesante, come un vecchio fumatore con i polmoni incollati dal catrame, ogni sospiro un rantolo che si perdeva nel buio.
Lei si infilò nel vicolo, il respiro ancora stabile, il cuore fermo come se nulla fosse successo. Dietro di lei, il suono delle risate si dissolveva nel ronzio della città.
Camminò per qualche minuto fino a un garage abbandonato. La porta arrugginita cedeva con un cigolio appena accennato.
Dentro, l’aria era umida. Scatoloni accatastati contro le pareti, un vecchio materasso buttato a terra, e una lampadina nuda che oscillava piano dal soffitto.
Si accovacciò su una cassa, lasciò che la notte si depositasse sulla pelle.
Poi sentì il rumore. Passi. Qualcuno.
Si alzò in piedi, i muscoli tesi. Non aveva paura. Era abituata a essere inseguita.
La porta si aprì di scatto. Una figura entrò nella penombra. Qualcuno che conosceva.
“Sei ancora viva, eh?” disse la voce bassa.
Lei rimase immobile. Lo fissò.
“C’è del lavoro per te”, continuò l’uomo.
Lei non rispose subito. Poi fece un cenno lento con la testa.
“Dimmi dove.”
L’uomo si avvicinò, le porse una sigaretta. Lei non la prese. Lui se la infilò tra le labbra, accendendola con un gesto lento.
“C’è un tipo che dobbiamo trovare. Uno stronzo che ha fatto incazzare la gente sbagliata.”
Lei lo guardò, aspettando.
“Lo vogliono vivo. Ma se serve… sai come fare.”
Il silenzio si allungò tra loro. Lei annuì.
L’uomo le porse un foglio. Un nome scarabocchiato, un indirizzo. Lei lo guardò appena, poi se lo infilò nella tasca posteriore dei jeans.
“Parti subito?” chiese lui.
Lei non rispose. Si limitò a girarsi, uscì dal garage senza fare rumore.
Dietro di lei, l’uomo tirò una boccata dalla sigaretta e sorrise tra sé. “Buona caccia.”
Fuori, la notte la accolse di nuovo, silenziosa, complice.
Dopo ore di attesa nel palazzo, lui parlò. Con la voce rotta, tra un tremito e l’altro, fece nomi, luoghi, date.
Le mani serrate sui braccioli della sedia, le spalle curve come se il peso delle parole lo piegasse. Gli occhi sfuggivano i suoi, cercavano il pavimento, le ombre sul muro, qualsiasi cosa tranne la sua espressione impassibile. Lei ascoltò. Era sempre stata brava a sentire le bugie e la paura.
Questo tizio? Un disastro.
Si alzò, gli tolse il bavaglio e annuì.
“Va bene. Ora rilassati. È quasi finita.”
Lui deglutì. “Mi lasci andare?”
Lei fece un sorriso storto. “Non proprio.”
Prese il telefono, compose un numero.
“Ce l’ho. Venite a prenderlo.”
Dall’altra parte, una voce familiare. “Ben fatto. Il tuo lavoro è finito.”
Lei chiuse la chiamata, guardò l’uomo. “Indovina un po’? Anche il tuo.”
Fece un passo indietro, raccolse il coltello dal pavimento e lo posò dolcemente sulle sue ginocchia. “Sai cosa mi piace di questo lavoro?”
Lui scosse la testa.
“La pensione anticipata.”
Si girò un’ultima volta, lanciò un’occhiata al corpo legato, poi all’insegna tremolante fuori dalla finestra.
Un ultimo sospiro, un sorriso sghembo. Il destino ha il senso dell’umorismo, pensò, mentre spingeva la porta ed entrava nella notte. si girò e uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Dall’altro lato della strada, un’insegna lampeggiava. “Bar Fortuna”.
Ridacchiò, infilò le mani in tasca e scomparve nella notte, mentre dietro di lei qualcuno urlava il suo nome.
Andrea Cacciavillani