Se stai leggendo, vuol dire che ho fatto il salto.
Quello che non lascia spazio a ripensamenti. Non c’è più un “oppure”.
Il cemento urla al mio passaggio e il vento mi accompagna come un vecchio amico che si diverte a farmi l’ultimo scherzo.
Ti chiedi perché scrivo. Perché lascio queste parole?
Perché l’idea di sparire senza dire nulla mi sembra insopportabile, quasi un insulto al disordine che porto dentro.
Non so spiegare bene il perché ma il silenzio – quel vuoto privo di significati, privo di un’eco – mi è sempre sembrato il più grande dei tradimenti, anche nei miei giorni peggiori.
Scrivere è un modo per lasciare qualcosa, anche solo una traccia vaga, come un graffio su una finestra impolverata.
E ora che non ci sono più, che sono una macchia cancellata su un marciapiede indifferente, forse queste righe faranno più rumore di quanto ne abbia mai fatto io in vita mia.
Ti racconto, così almeno, qualcuno saprà che non è stato un salto verso la fine ma un salto per scappare da tutto ciò che stava prima.
Magari qualcuno troverà queste righe e le rileggerà, sorridendo o scuotendo la testa.
Forse tu. Chissà.
Mi trovo qui, su questo cornicione, con i piedi che si aggrappano al cemento come se temessero l’abbandono, mentre sotto di me il mondo continua a respirare, ignaro.
È una sensazione strana. Come essere al centro di un vortice che però non ti tocca.
Il traffico è un mosaico di luci intermittenti, un concerto stonato di clacson e motori che si sovrappongono senza un ritmo. Scorre come un fiume che ha dimenticato la sua destinazione. Ogni auto un minuscolo frammento di un sistema che non guarda mai in alto.
Mi fa sentire come un osservatore estraneo, un’anima fuori posto che non riesce a trovare il suo ruolo nella scena. È come se il mondo si fosse messo d’accordo per ignorarmi, ed eccomi qui, a fissarlo come uno spettatore non invitato a una festa.
Tutto scorre, tutto ronza e io sono in una parentesi, una di quelle che chiudi solo perché devi, senza mai capire cosa ci fosse dentro davvero.
Le mani sono infilate nelle tasche. Una posizione da nulla, che non dice niente.
Non è paura, non è coraggio. È qualcosa di diverso, uno stato di sospensione che ti schiaccia e ti alleggerisce allo stesso tempo.
Mi accorgo che non sto cercando il vuoto. Non è una fuga nel nulla che mi attrae. Sto cercando me stesso, un frammento che forse ho perso nel caos, tra obiettivi che non ho scelto e aspettative che non ho mai sentito mie.
Mi trovo qui, non per arrendermi, ma per provare a ritrovarmi.
Sotto ogni tanto qualcuno si ferma, alza la testa, ma dura poco. Sono come bolle che salgono in superficie e spariscono subito, inghiottite dal rumore.
“Perché sei lì sopra?” mi chiedo ad alta voce. Per una volta non c’è nessuno a rispondermi, nessuna voce interiore pronta a ridacchiare o a giudicare.
Sono solo. Forse lo sono sempre stato. Ma ci sono modi diversi di essere soli.
C’è la solitudine che ti abbraccia quando torni a casa e senti l’eco dei tuoi passi in stanze troppo grandi per te. C’è la solitudine del letto che sembra urlare che qualcuno manca ma tu non ricordi nemmeno chi. La solitudine di una cena consumata in piedi, perché sedersi significherebbe confrontarsi con il vuoto davanti a te.
Poi c’è questa: quella del cornicione. Qui, la solitudine non è un’assenza. È un peso che si appoggia sulle spalle, che ti guarda negli occhi e ti sfida a continuare.
È una compagnia scomoda ma fedele, l’unica che non ti ha mai lasciato, anche quando avresti voluto liberartene.
Questa solitudine non si nasconde nei dettagli. Si mostra tutta insieme, senza filtri, senza scuse.
Ed è più onesta di quanto lo sia mai stato chiunque altro.
Da bambino mi dicevano che ero uno “strano”. Non nel senso creativo del termine, più nel senso di qualcuno che non sa mai dove mettere le mani o cosa dire nei momenti giusti. Ricordo un compagno di scuola, uno di quelli bravi a parlare, che mi disse: “Tu sembri un foglio stropicciato”. All’epoca non capivo cosa intendesse. Oggi sì.
Un foglio stropicciato è difficile da piegare bene, non si adatta mai come gli altri.
La mia carriera non è mai decollata. Non è nemmeno partita.
Ho passato anni seduto a una scrivania che sembrava più una gabbia che un punto di partenza.
Ogni giorno le stesse facce, gli stessi documenti, le stesse domande che non aspettavano una risposta. I miei tentativi di emergere si infrangevano contro muri invisibili..
Ogni mattina mi siedo lì, in quello spazio angusto dove la creatività va a morire e apro una cascata di email. Tutte sembrano scritte da persone che (secondo me) non hanno mai sorriso.
Un tempo credevo che il lavoro fosse una scala da salire ma ora so che per molti è solo un tapis roulant che non si ferma mai.
Una volta, durante una riunione, mi sono azzardato a proporre un’idea. Una sola. E il mio capo mi ha guardato come se avessi appena suggerito di fare un picknic in un cimitero. Quel suo sguardo, quel silenzio, mi hanno insegnato più di qualsiasi corso di formazione: non si parla, non si sogna, non si esce dai ranghi. Da allora non ci provo più.
Poi c’è l’amore. Ho avuto una relazione con una donna che amava i cactus.
Diceva che erano piante forti, che non avevano bisogno di cure costanti. Lei le adorava per la loro resistenza.
La capacità di crescere in silenzio, senza chiedere troppo, accontentandosi di un po’ di luce e un sorso d’acqua ogni tanto.
Io invece sono come una pianta d’acquario: sommerso, silenzioso, incapace di esistere senza un sistema che mi sostiene. Lei lo sapeva, credo. Ogni tanto mi guardava come si guarda qualcosa che non sai se salvare o abbandonare.
Una sera mi dice: “Forse ti amo, ma tu non sei un cactus”.
Non capisco subito. Alla fine, mi lascia con un messaggio scarabocchiato sul frigorifero: “Torna a galleggiare”. Tornare dove? Galleggiare come? Non so nemmeno cosa significhi ma da allora il suono del frigorifero mi irrita. Non lo apro mai senza sentire quella frase risuonare nella testa.
E penso che forse aveva ragione. Non sono un cactus ma neanche lei era una pianta forte.
Solo due esseri che non sapevano dove mettere le radici.
E così, eccomi qui, sul cornicione. Non è una scelta drammatica, non fraintendetemi. Non c’è pathos, non c’è poesia. È solo una sorta di logica inevitabile. Come quando apri una lattina di fagioli e scopri che hai dimenticato il cucchiaio.
E allora che fai? Bevi i fagioli direttamente dalla lattina.
Questo cornicione è il mio sorso di fagioli.
Da sotto qualcuno urla. Non capisco cosa ma il tono è quello di chi vuole sentirsi parte della scena. C’è sempre un pubblico, persino nei momenti meno teatrali.
Li immagino lì, con i cellulari pronti, sperando in un finale esplosivo. E io? Io non voglio dare loro quel piacere. Non è per loro che sono qui.
Guardo il cielo. Non è diverso dagli altri giorni, ma sembra più grande. Come se avesse inghiottito i confini, le cornici, le regole.
Penso a mio padre, che una volta mi disse: “Il cielo non si preoccupa di noi, perché dovremmo preoccuparci noi di lui?” Era la sua filosofia: semplice, tagliente, inutile.
Penso anche a mia madre.
Lei collezionava cose. Francobolli, bottoni, scuse.
“Ogni cosa ha il suo posto”, diceva sempre. Ma io non l’ho mai trovato, quel posto. Forse è questo il punto. Non c’è un posto per me e questo cornicione ne è la prova.
Il megafono rimbomba di nuovo. “Scendi, possiamo parlare!” Parlare di cosa? Di materassi ortopedici? Di offerte speciali al supermercato? O forse vogliono discutere di quanto sia ironico tutto questo. Un uomo senza scopo che cerca di farla finita sopra un mondo pieno di cose inutili.
Un uccello si posa accanto a me. Piccolo, grigio, con gli occhi neri e curiosi. Mi fissa. Forse per lui non sono altro che un’altra figura immobile, un pezzo di paesaggio, eppure non posso fare a meno di pensare che il suo volo, quel suo semplice battere d’ali, sia un modo per ricordarmi che ci sono altri modi di restare, di muoversi, di vivere. Mi guarda come se stesse aspettando una spiegazione. “Non ce n’è una”, gli dico. Lui inclina la testa, saltella via e vola.
Lo seguo con lo sguardo. Vola basso, ma vola. Io no. Non ancora
Poi chiudo gli occhi, lascio che il vento mi spinga un po’ e mi abbandono al vuoto.
Il mondo sotto di me si ferma per un attimo, trattiene il fiato e poi mi accoglie con un silenzio assordante.
Immagino il cemento farsi più vicino, la folla trattenere l’urlo, e penso: “ecco, ci siamo.”
Ma non ci siamo. Sorrido. Sì, hai letto bene. Sorrido.
Perché tutto questo è una scenografia, un teatro montato apposta per te, per chiunque abbia deciso di arrivare fino a qui. Il salto? Non c’è stato. Non c’è mai stato. Ma avevo bisogno che ci credessi, almeno per un momento.
Volevo portarti lì con me, su quel bordo, volevo che sentissi il freddo del cemento e l’ironia del vento.
Non serve saltare. Forse la vita è giusto questo. Una caduta che non smette mai, una discesa lenta dove non ci sono applausi. Ho messo questo sipario qui, su un cornicione immaginario, perché a volte è lì che capisci tutto. O almeno, così sembra.
Perché il vuoto, quando lo fissi abbastanza a lungo, non è sempre una minaccia. A volte ti ricorda che puoi restare. O che c’è ancora spazio per un passo indietro, uno di quelli che fai perché sei stanco di rincorrere una direzione che non ti appartiene.
E alla fine, forse, non c’è davvero una risposta. Ci sono giorni in cui ti fermi e ti chiedi se tutto questo – il caos, le corse, le decisioni – sia solo un grande scherzo malriuscito. Altri giorni, invece, decidi che il senso te lo inventi. Magari è una bugia, ma è una bugia che ti salva.
Tanto vale fermarsi un attimo, aprire una bottiglia, e ridere della scena.
Magari proprio con il cornicione alle spalle e il cucchiaio ancora in mano.
“Un brindisi al caos”, ti dici.
Perché dopotutto, chi l’ha detto che bisogna sempre avere un piano?
Andrea Cacciavillani