Era un lunedì di quelli che sanno di cartoni del latte scaduti. Il cielo era pulito, un foglio bianco senza margini, ma non c’era neanche un frammento di luce capace di convincerti che il giorno avrebbe avuto qualcosa di buono da offrire. Lui attraversò la strada senza guardare, non per coraggio, ma perché il pericolo gli pareva un vecchio comico che non faceva più ridere nessuno. Persino il rischio aveva perso il fascino di una battuta andata a segno. L’ufficio degli oggetti smarriti era un cubo di cemento grigio con finestre che sembravano palpebre pesanti, quasi a metà tra il sonno e l’indifferenza. Dentro, c’era un odore di carta vecchia, di sogni smarriti, di storie che nessuno aveva mai finito di raccontare. Le pareti, stanche, indossavano una sfumatura di beige che un tempo, forse, voleva essere bianco, ma che ora sapeva solo di resa.
Gli scaffali di metallo si allungavano come binari arrugginiti, colmi di scatole di cartone e di etichette sbiadite. Da quelle scatole spuntavano frammenti di vite altrui: un guanto senza compagno, una fotografia sgualcita, una fede che non stringeva più nulla, neanche un ricordo
Dietro il banco, la receptionist sembrava scolpita per scoraggiare. Una faccia di pietra con crepe sottili, gli occhi avevano la vivacità di una lampadina sul punto di fulminarsi.
Indossava un maglione grigio che si sfilacciava ai polsi, come se il tessuto stesse cercando di scappare da lei. La penna che teneva in mano era più una specie di bacchetta magica spezzata, capace solo di graffiare la carta con una rabbia che non aveva una direzione.
L’uomo si avvicinò al banco, le mani affondate nelle tasche, come se stesse cercando un resto di coraggio.
“Che hai perso?” chiese la donna, senza nemmeno alzare lo sguardo. La voce era piatta, un coltello che non tagliava più.
“La speranza” rispose lui.
A quel punto, lei sollevò gli occhi, ma appena di un millimetro. Non era curiosità, solo abitudine.
“Che tipo di speranza?”
“Quella con le ali. Quella che dicono non muore mai.”
La donna fece un suono con la lingua, un click distratto, come un interruttore acceso per sbaglio. Si voltò verso uno scaffale dietro di lei, le dita che scivolavano leggere sulle etichette sbiadite: Occhiali da sole, Ambizioni, Cappelli, Innocenza.
“Non la vedo,” mormorò, scorrendo con lentezza studiata. “Forse è stata registrata con un altro nome?”
“Non credo,” disse lui, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. “Non è mai stata brava a nascondersi.”
Lei sospirò, lasciando cadere la penna sul banco.
“Sa, qui ne arrivano tante di speranze. Alcune piccole come un sassolino, altre troppo ingombranti per stare in una scatola. Alcune sono rotte, altre semplicemente abbandonate. Ma di solito le troviamo un posto.”
Lo guardò con un’espressione che non prometteva nulla. “Era di un colore particolare?”
“Trasparente,” disse lui.
“Capisco.” Non capiva. Non importava. “Vuole lasciare un recapito, nel caso salti fuori?”
Scosse la testa.
Dietro di lui, un uomo tossicchiò, impaziente. Portava un cappotto troppo grande, i bottoni mancanti e un ombrello rotto che pendeva da una mano.
“Ehi, amico,” disse con una voce piatta, tagliata di freddo. “C’è una fila. Che hai perso?”
“La speranza.”
“Ah,” replicò l’altro con un’alzata di spalle. “Ce l’ho ancora io, ma non me ne faccio niente. La vuoi?”
“No, grazie,” rispose l’uomo, con un sorriso amaro. “Vorrei solo sapere dove è finita la mia.”
L’altro si strinse nelle spalle, lasciando cadere una goccia di pioggia immaginaria.
La receptionist sollevò una mano, il palmo aperto come per fermare una lite inesistente.
“Guardi” disse, “se vuole, le posso dare qualcos’altro. Abbiamo una scatola piena di dignità che nessuno reclama e un sacco di sogni infranti. Quelli non mancano mai.”
“Non voglio niente,” rispose lui. “Solo sapere se qualcuno l’avesse trovata”
La donna si limitò a scrollare le spalle.
“Non capita spesso. Di solito chi perde la speranza si arrangia con qualcosa di peggio.”
Quando uscì, la strada sembrava la stessa, ma qualcosa nell’aria era diverso. Le mani gli pendevano ancora vuote dalle tasche, ma c’era un peso nuovo, un’intuizione che non sapeva ancora come chiamare.
Si fermò davanti a una vetrina. Il negozio era uno di quelli che vendono tutto e niente, una collezione di oggetti che non trovavano un senso altrove: orologi fermi, statuine di porcellana incrinate, libri spogli della loro copertina. Un vecchio stava spolverando una fila di chiavi arrugginite appese a un muro, e l’uomo sentì qualcosa, una spinta sottile, come il richiamo di una melodia distante.
Entrò.
“Cerchi qualcosa?” chiese il vecchio, senza voltarsi.
“Non lo so,” rispose lui, lasciando che gli occhi vagassero sugli scaffali.
E poi la vide.
Una scatola di legno chiaro, piccola, posata sopra un tavolo come se aspettasse. Non aveva etichette, né serrature.
La prese in mano, e il tocco era quello di un pensiero a lungo dimenticato.
“Quanto costa?” chiese.
Il vecchio lo fissò, gli occhi stretti, un lampo di curiosità a illuminarli.
“Dipende. Cosa sei disposto a dare?”
“Non ho molto.”
“Basta quello che hai,” rispose il vecchio, con un sorriso leggero che non arrivava alle labbra.
L’uomo camminò fino a un parco vicino e si sedette su una panchina che cigolava piano, quasi avesse imparato a condividere il peso delle esitazioni.
Aprì la scatola con mani calme, come si apre un segreto.
Dentro, uno specchio piccolo, incorniciato in legno grezzo, il tipo di specchio che sembrava venire da un altro tempo.
Si guardò. Dopo tanto tempo.
A lungo.
Andrea Cacciavillani