Le dita erano sporche, unte di polvere e di vergogna, le unghie sfaldate come vecchi spigoli di legno.
Strinse il pezzo di pane come fosse l’ultima cosa viva al mondo.
Aveva un odore rancido, acido, quasi dolciastro. Le mani, coperte da quei guanti bucati, erano screpolate e la pelle che sbucava fuori sembrava cuoio antico, una mappa di crepe che raccontava di un tempo prima di cadere.
La strada era fredda, troppo larga per sentirsi umano, troppo stretta per trovare scampo.
I palazzi si piegavano sopra di lui soffocanti, eppure lontani, inaccessibili. Intorno, i passi della città si sparpagliavano senza ordine, un’orgia di indifferenza.
Scarpe di cuoio, tacchi sottili, sneakers: tutto scivolava accanto a lui come acqua e lui era il fondo della cisterna, dove tutto si accumula e marcisce.
Mangiò una briciola per ricordarsi che era ancora vivo. Il pane si frantumò, il sapore era un misto di cartone bagnato e polvere. Gli si incastrò tra i denti gialli e fece un sorriso vuoto verso nessuno.
C’era una puzza nell’aria, di smog, di urina secca. Ogni tanto, un profumo di cibo fritto scivolava fuori da una finestra e gli accoltellava il petto ma anche quello ormai era solo un ricordo, un fantasma che non faceva più male.
Un corvo planò sulla spalla del bidone accanto a lui. Nero, con occhi vitrei e affilati come vetri rotti. Lo guardava senza paura, come un dio minore in attesa di tributo. L’uomo spezzò una briciola più grossa e la lanciò sul cemento. Il corvo la divorò in un lampo, beccando con una precisione che quasi lo faceva ridere.
Le mani tremavano. Il freddo gli mordeva le ossa, ma non era solo quello. Era la stanchezza. Un tipo di stanchezza che non va via. L’accendino tra le dita gli scivolava per il sudore gelido. L’uomo lo accese, solo per guardare la fiamma. Breve, arancione, viva. Non fumava più. Non poteva permetterselo. Ma la fiamma era qualcosa, un piccolo pezzo di inferno personale che poteva controllare.
Dal lato opposto della strada, una donna gli lanciò uno sguardo. Non di pietà. Era peggio. Lo guardò come si guarda un vecchio sacco dell’immondizia, di quelli che restano lì troppo a lungo e che nessuno vuole toccare. Lui non abbassò lo sguardo. Lo reggeva, sempre.
Perché a quell’altitudine, dove l’anima non ha più niente da perdere, non c’era vergogna. C’era solo il vuoto.
Poi arrivò lui, il bambino. Magro, con un cappotto grande. Non correva come gli altri.
Si avvicinò senza esitazione, con quel passo che appartiene ai curiosi o agli incoscienti.
Si fermò a pochi metri di distanza, studiandolo come si studia una cosa che non si capisce ma che, per qualche ragione, ti attira.
“Mamma, perché sta lì?” chiese il bambino, indicando l’uomo con un dito sottile e sporco di cioccolata.
La madre lo raggiunse, afferrandolo per il braccio. Indossava un cappotto di lana chiara.
Si piegò verso il figlio.
“Non guardarlo” ma il sussurro era tagliente come un coltello. “Andiamo.”
“Perché non posso guardarlo?” insistette il bambino, senza muoversi. Il suo dito rimaneva puntato, fermo come un’accusa.
“Non è educato” rispose lei, tirandolo più forte. “Non si fissa la gente.”
“Non è gente” disse il bambino, senza malizia. La madre impallidì, come se quelle parole avessero improvvisamente dato forma ai suoi pensieri e fece un passo indietro.
Ma lui, il barbone, rise. Un suono basso, rauco, che gli si spezzò in gola.
“E tu cos’è che sei?” chiese l’uomo, con una voce ruvida e piena di vento.
Il bambino lo guardò dritto negli occhi. Non c’era paura in quello sguardo, solo una strana serietà, troppo grande per il suo viso.
“Io ho fame” disse.
La madre lo strattonò via, questa volta con forza ma non prima che il bambino infilasse una mano in tasca e tirasse fuori qualcosa. Era un biscotto. Uno di quelli avvolti in una plastica colorata, il tipo che ti regalano al ristorante quando ordini il caffè. Lo lanciò verso l’uomo e il biscotto atterrò ai suoi piedi, rotolando come una moneta.
“Basta così!” urlò la madre, trascinando il figlio via. Le sue scarpe ticchettarono sull’asfalto e la loro ombra si dissolse nel flusso della folla.
L’uomo fissò il biscotto per un lungo momento. Poi lo raccolse.
La plastica scricchiolò mentre lo scartava. Lo morse piano, i denti che affondavano nella dolcezza artificiale come in un peccato proibito.
Il corvo tornò, atterrando vicino ai suoi piedi. Lo guardò con quei suoi occhi neri e immobili, aspettando. Lui spezzò metà del biscotto e lo posò a terra.
“È tuo,” mormorò, mentre il corvo beccava la briciola più grossa con una rapidità feroce. Poi si accorse di qualcosa. Sulla plastica accartocciata del biscotto c’era un disegno fatto a matita, probabilmente dal bambino. Due figure stilizzate. Una grande e una piccola. Entrambe sorridevano ma il tratto era confuso, le linee tremavano.
Lui lo fissò a lungo, stringendo quel pezzo di plastica tra le dita.
Era questo il loro dono: un biscotto e un disegno. Qualcosa di dolce, qualcosa di umano, qualcosa che non poteva essere mangiato ma che rimaneva.
E per la prima volta, dopo mesi mesi, lui si concesse il lusso di ricordarsi com’era, una volta, sentire caldo.
Andrea Cacciavillani