Il bar alla fine del mondo aveva visto giorni migliori. L’insegna al neon sfrigolava, perdendo colpi, gettando sprazzi intermittenti di un rosa sbiadito sulle pozzanghere dell’asfalto. Dentro, l’odore di birra si mescolava al fumo di sigaretta e a quella patina invisibile di vecchie conversazioni lasciate a metà.
Cappuccetto Rosso sedeva su uno sgabello alto, le gambe incrociate come se stesse ancora cercando di difendersi da un lupo che non c’era più.
Il mantello rosso logoro, le cadeva dalle spalle come una ragnatela di ricordi.
La porta del bar si aprì con un gemito di vecchie cerniere, lasciando entrare una folata d’aria fredda e il Principe Azzurro.
Non era come nei libri: niente mantelli impeccabili, niente scintillio negli occhi. Solo un uomo alto, con la camicia stropicciata e i capelli che non incontravano un pettine da secoli.
Fece un cenno distratto al barista, poi lasciò che lo sguardo scivolasse sulla stanza come se cercasse qualcosa.
Quando vide Cappuccetto Rosso, gli angoli della bocca si piegarono appena, un mezzo sorriso che sembrava tirato fuori a forza. Si avvicinò con passi lenti, il rumore degli stivali rompeva il silenzio ovattato del locale. Senza una parola, si sedette accanto a lei, lasciando cadere il peso del corpo sullo sgabello.
Cappuccetto lo osservò di sfuggita, un sopracciglio sollevato e un accenno di sarcasmo negli occhi.
Lui non disse nulla, prese il bicchiere già pronto davanti a sé e lo sollevò, guardandolo controluce.
“Principe” grugnì lei, “mai pensato di mandare al diavolo quel cavallo bianco?“
Lui la guardò con un sorriso che sembrava cadere a pezzi. “Ogni notte, Cappuccetto, ogni dannata notte.”
Lei estrasse una sigaretta, la fece scivolare tra le labbra screpolate. Le sue mani tremavano appena. Lui si protese con l’accendino. La fiamma tremula le illuminava il viso per un istante, abbastanza per vedere le sue rughe sottili.
Il fumo si alzò, contorto e pigro, come una magia scaduta. È un filo di tempo che si srotolava senza fretta, un trucco da prestigiatore che nessuno vuole più vedere.
“Sai cosa mi fa impazzire?” disse lui, rompendo il silenzio come si spezza un ramo secco.
“Le fiabe non parlano mai di quello che succede dopo. Dopo il bacio, dopo la mela, dopo il gran finale. Siamo rimasti intrappolati in un ‘vissero felici e contenti’ che sa di bugia. Ogni cazzo di giorno, una principessa e un castello nuovi per un bacio da una che nemmeno conosco il nome.“
Cappuccetto rise. Una risata rauca, profonda, quasi un ruggito. Si sfregò il mento. Gli occhi che guardavano lontano, oltre il bancone, oltre i vetri sporchi.
“E io? Salvata da un lupo, solo per essere lasciata da ogni uomo perché pensa possa cavarmela da sola nel bosco. La libertà è una merda se devi ringraziare sempre qualcuno.“
Il Principe passò un dito sulla condensa del bicchiere. Disegnò qualcosa che svanì prima ancora di prendere forma.
“Che vita, eh?“
Lei annuì, svuotando il bicchiere con un gesto deciso. “Da bambina ero terrorizzata dai lupi, ora li invito a cena.”
Il Principe aveva gli occhi persi in un punto che solo lui riusciva a vedere.
Parlarono di lupi che forse non erano così cattivi. Di principesse che forse non volevano essere salvate. Le loro voci si intrecciavano con il rumore delle sedie trascinate sul pavimento e il fruscio dei bicchieri che venivano asciugati dal barista, un uomo vecchio e saggio per ascoltarli.
Fuori, il tramonto stese un rosso sporco sul cielo. Il neon sfrigolava di nuovo, come un segno di pericolo.
“Azzurro” disse lei con un filo di sfida nella voce. “Credi che ci ricorderanno per quello che siamo stati o solo come i pupazzi di qualche morale obsoleta?“
Lui alzò lo sguardo, lo posò su di lei. C’era un lampo nei suoi occhi ma si consumò prima di potersi accendere davvero. “Ah, Rosso, siamo già dimenticati. Ora siamo solo aneddoti, strumenti per insegnare lezioni ai bambini prima di dormire.“
Le ore passarono, il bar si svuotò. Restarono solo loro. Due figure sfocate in un quadro di Hopper. Ma non c’era niente di romantico in quella scena. Erano troppo stanchi per esserlo. Troppo veri.
Cappuccetto si alzò. Il suo mantello scivolò appena, rivelando un vestito che un tempo doveva essere bello.
Sembrava un ricordo che non vuole andare via. “Che ne dici, Principe, facciamo saltare in aria il finale della nostra storia?“
Offrì la mano, rugosa e decisa. Le unghie erano dipinte di un rosso scrostato.
Lui la prese, con un sorriso che un tempo spezzava maledizioni.
Si avvicinarono alla porta.
Il campanello tintinnò, una nota dolce che chiudeva una melodia di confessioni.
“La mia camera o la tua?” sussurrò lui.
“La mia” rispose lei accennando un sorriso. “Ha le finestre verso il bosco.“
Andrea Cacciavillani